21 febbraio 2013

Cosa non ha fatto Giannino.

1. Non ha conseguito un master a Boston
2. Non ha conseguito lauree in giurisprudenza e/o economia
3. Non ha partecipato da bambino allo Zecchino d'Oro

Se da un lato è chiaro che ora i media ce l'hanno un po' con lui (ma d'altronde in campagna elettorale è ovvio essere messi sotto la lente, e bisogna essere pronti alle imboscate) dall'altro sorge una domanda: uno che dice di aver fatto molto, ma che sembra aver fatto poco, doveva scegliere il nome "Fare" per il proprio movimento?

PS. Da abbonato di Wired, non mi straccerò le vesti se spariranno gli illuminanti contributi di Giannino in tema di economia.

27 gennaio 2013

Bruzolo - Combette con discesa lungo Rio Pissaglio.

Giro invernale in MTB con partenza da Bruzolo (TO), salita verso i Bigiardi e Combette e discesa lungo il Rio Pissaglio fino a Bruzolo. 
Qui la traccia GPX registrata con Garmin EDGE 800. 
 
E qui sotto l'immancabile video registrato con la fida GoPro attaccata al chest mount di mia costruzione.



19 gennaio 2013

Nuovi modelli FIAT: quando è la satira a copiare.

Copiare, o per lo meno, prendere spunto. O, chissà, un frutto del subconscio. Alessandro Robecchi de Il Fatto Quotidiano, pubblica un articolo che vorrebbe essere satirico (o umoristico, non è chiaro -- a lui) sulla FIAT, una specie di disanima di nuovi modelli. Agghiaccianti i commenti divertiti dei lettori.
Lo scritto vorrebbe essere divertente, ma non è lo. Primo, perché l'azienda ha appena annunciato due anni di CIG per i dipendenti dello stabilimento di Melfi (come mai nessuno parla delle ripercussioni sull'indotto?); secondo, perché un articolo simile, ma decisamente più riuscito e di buon gusto, lo scrisse quattro anni fa l'inarrivabile Michele Serra per la rubrica Satira preventiva.
Chi ha buona memoria, se lo ricorda di sicuro. Gli altri lo rileggano.

18 gennaio 2013

Myspace, a volte ritornano.

Forse un po' indaffarati a seguire il turbinio evoluti dei social network, consolidati, nuovi e nuovissimi, e delle loro declinazioni su diverse piattaforme (mobile, web), non tutti ricordiamo che, agli albori delle reti sociali, a contendersi gli utenti con Facebook c'era il (disastroso) Myspace, la piattaforma social fortemente incentrata sulla musica, allora gravitante nella galassia News Corporation, di proprietà del tycoon Rupert Murdoch. Stiamo parlando di sei o sette anni fa, eppure sembra (quasi) preistoria. Ai tempi, invitato da alcuni amici musicisti semiprofessionisti che cercavano di promuovere la propria musica in rete, mi ero iscritto ed avevo curato un profilo. Sia detto per chi, allora, non frequentava Myspace: era un incubo. Sul serio: gli utenti potevano personalizzare la home page del proprio profilo inserendo codici e template HTML in un editor WYSIWYG, con risultati tra il caotico e lo stucchevole ma sempre, sistematicamente, contrari alle elementari regole di accessibilità, leggibilità e navigazione. Un marasma. Gigantesche icone animate e sfondi "fantasy", testi con font tipografici scuro su scuro, player che riproducevano in automatico loop musicali, slideshow che invadevano diverse sezioni della pagina.

Poi, il meccanismo "social": per la serie, tutti amici di tutti. Era la gara a chi invia e riceveva più "add" (ovvero aggiungere utenti come amici al proprio profilo). Pure io, che sono un po' orso, avevo centinaia di "amici". Ne conoscevo una piccola porzione, e la maggior parte erano profili di rockband mantenuti da webmaster che aggiornavano, di rado, un bollettino delle news.  Anche lo stream era caotico, più che altro un susseguirsi di messaggi e commenti. E dire che, negli stessi mesi, le funzionalità social di Facebook stavano evolvendo e si stavano consolidando. Purtroppo, come noto, il web non ha memoria, ma per un utente il confronto era abbastanza evidente. Ricordo perfettamente che circolava, in quei mesi del 2006, un brillante quanto mai provocatorio articolo in cui si sosteneva, senza tanti giri di parole, che negli USA gli utenti medi di Myspace erano prevalentemente neri o ispanico-americani, di reddito medio basso, con un titolo di studio di scuola superiore e con impieghi di profilo non elevato, mentre chi usava Facebook quotidianamente poteva essere descritto come il tipico studente bianco di famiglia benestante, iscritto al college. Non ho trovato l'articolo originale, ma questo contributo relativamente recente ne riprende in sostanza alcuni dei concetti. Utile, anche se datato, questo articolo che confronta i principali social network nel mondo (al 2009). Tutti d'accordo, invece, nel sostenere che Facebook abbia imparato molto dagli errori e dalle mosse "ingenue" di Myspace, proponendo un template pulito, funzionalità più immediate, migliore gestione della rete di contatti. Errori che a Myspace e al suo finanziatore, sono costati moltissimo; ma chi ha pagato il prezzo più elevato sono stati i moltissimi dipendenti licenziati a Los Angeles nel 2009 nel momento di crisi più profonda. Proprio in quelle settimane, sul popolare social network Reddit, di cui ho parlato in un mio precedente articolo e che oggi tutti conoscono per la drammatica fine di Aaron Swartz, uno dei suoi fondatori, sono stati pubblicati interventi di giovani sviluppatori che avevano appena ricevuto la lettera di licenziamento e le due settimane di paga, e che passavano il tempo nella caffetteria aziendale o a cercare un nuovo lavoro. In quel trambusto spuntò il cantante, attore e produttore Justin Timberlake che, forse troppo ricco da non sapere come spendere i propri soldi, decise di investire una cifra gigantesca per rilanciare la piattaforma. Senza esiti brillanti, ad essere sinceri. Insomma, anche il business model che stava dietro (la promozione di nuovi talenti musicali alla ricerca di una label e di un contratto) ha funzionato per poco, e non credo abbia prodotto una grande ricchezza. Poi, per Myspace, l'oblio, contrapposto al successo di Facebook, alla sua quotazione in borsa, alla nascita di altri nuovi micro social network, alle strategie dei grandi player del web e dei servizi mobili. Premessa un po' lunga ma doverosa. Perché, come tutti avrete letto, nelle scorse ore ha fatto nuovamente la propria comparsa sulle scene un redivivo Myspace. Piccole furbizie di marketing: il lancio è avvenuto in contemporanea con l'uscita dell'ultimo singolo del suo proprietario, la cui foto campeggia sulla home page; inoltre, per gli utenti più tradizionalisti, è presente un pulsante che apre la vecchia versione di Myspace.





 L'accesso al servizio, superfluo dirlo, è abilitato da: -  username e password dei vecchi account Myspace, se uno se le ricorda (e se funzionano: io ho provato ma il mio utente risultava sconosciuto) -  una nuova registrazione -  connettori sociali: Twitter connect e Facebook connect, più arricchimento del profilo con un po' di dati personali, preferenze e descrizioni. Ho optato per Twitter connect.





Finita la procedura di registrazione, finalmente si alza il sipario sul nuovo Myspace che, ad onor del vero, è completamente diverso dalla vecchia versione. Ci accoglie una grafica pulita ed essenziale, un menu chiaro sulla sinistra e una descrizione abbastanza esaustiva delle nuove funzionalità.

  

Già dalla registrazione, ma anche leggendo i commenti pubblicati in queste ore, emerge subito l'approccio orientato alla musica di questo redivivo social network: in basso è sempre presente una barra funzionale con i comandi di un player musicale, segno che la promozione di musica è ancora al centro degli interessi della piattaforma.

 

Insomma, tutto sembra al suo posto, finalmente: la grafica, l'integrazione, le funzionalità, i percorsi guidati. Ma, come fanno notare alcuni, il grande ostacolo che Myspace dovrà superare è il tempo: Myspace arriva tardi in tutti i sensi: tardi rispetto agli altri social network che realizzano meccanismi di retention sempre più raffinati ed offrono strumenti di business molto sofisticati (big data, profiling ecc), tardi rispetto ai nuovi competitor che si contendono nicchie di utenti (vedi Pinterest), ma anche tardi rispetto al paradigma stesso del social network che, nell'anno dl Signore 2013, hanno ampiamente raggiunto il hype del loro ciclo di vita e devono attrezzarsi per evolvere. Facebook lo sta facendo, cercando di competere nel segmento dei motori di ricerca; il vantaggio competitivo di Twitter è insito nel suo meccanismo fortemente asimmetrico e nell'immediatezza del messaggio; altri microsocial offrono funzionalità di nicchia o verticali molto gradite (ad esempio Instagram). Poi c'è chi prova ma forse non riesce: è il caso di Microsoft So.cl, di cui ho scritto qualche tempo fa (siamo sinceri: chi lo usa?). E' questo il contesto in cui Myspace dovrà dimostrare la validità del suo modello e la potenzialità delle sue funzioni, soprattutto quelle legate alla distribuzione di contenuti multimediali originali. La partita è aperta.

Articolo pubblicato su Voices

21 dicembre 2012

.the end.

Speravo che l'annus horribilis (sono così tanti che ormai si confondono l'uno con l'altro) terminasse con qualcosa di più intelligente dei dibattiti sui Maya (oggi tutti i giornali, blogstar, Twitstar e compagnia scrivono di non aver mai creduto alla profezia) e del nuovo boyfriend di Nicole Minetti. Malnata ingenuità.

14 dicembre 2012

Rock vs Hip Hop. Fate voi.

Prima vedo e ascolto questo


poi in TV e in radio e sul web passa, acclamato come la rivelazione musicale dell'anno, questo


Io ci vedo un delinquente incolto e nemmeno troppo intonato che sputa una sequela di luoghi comuni e volgarità, senza alcun talento né merito.

Mi perdonerete se non riesco proprio ad apprezzare la maggior parte del rap e dell'hip hop.

13 dicembre 2012

Cut me some slack, una performance inascoltabile.

Se anche per voi i Nirvana erano sostanzialmente questo


converrete con me che certe operazioni necrofile, aggravate dalla presenza di Sir Paul (il motivo caritatevole non è un'attenuante), non possono che portare a disastri come questi


Scendiamo nei dettagli? E' davvero una delle poche volte in cui Macca suona far schifo e, ciò che è peggio, contagia tutti: Smear, che a suonare era bravino, sembra un adolescente in sala prove; Grohl è scoordinato; Novoselic... be', Novoselic non ha mai saputo suonare, però aveva i capelli l'ultima volta che ho rivisto il VHS Live Tonight Sold Out.
Volete rinfacciarmi di essere rimasto avvinghiato con unghie e denti al metal degli anni '80 e al rock degli anni '90?

26 novembre 2012

Alice Munro, Troppa felicità.

Quando mi regalano un libro, specie se a regalarlo è un caro amico, il mio cuore di lettore si riempie di aspettative con cui riesco quasi a mettere da parte il mio ormai radicato (ma pur sempre sradicabile, basta volerlo) sospetto nei confronti della narrativa contemporanea, e in particolare dei racconti.
Non voglio qui soffermarmi sui motivi che mi hanno da tempo spinto ad abbandonare la fiction in favore della saggistica: si dica solo che, come sovente accade, i miei sospetti su certe tare della narrativa contemporanea (quel sapore di "già letto, grazie" e "siamo sicuri che ce ne fosse bisogno?") si rivelano non privi di fondamento allorquando giro l'ultima (più spesso la terzultima) pagina di un romanzo o di una raccolta di racconti.
Ma torniamo a Troppa felicità. Le prime pagine, fatalmente, mi catapultano indietro di alcuni anni, ai primi racconti di McEwan, un autore che ho divorato e amato fortemente ma che ultimamente non riesce più a stimolarmi; anzi, ad essere sinceri, sembra proprio una scopiazzatura del primo McEwan. Gli ingredienti ci sono tutti: personaggi ambigui, atmosfere cupe al limite del grottesco e, rullo di tamburi, un lieve senso di disagio nel procedere con la trama. Voilà: è sufficiente levare un istante gli occhi dalle pagine, ad onor del vero scorrevolissime, per essere persuasi di un fatto: il racconto che sto leggendo è un pretesto per creare una sensazione di imbarazzo, ansia e disagio nel lettore. Quasi un compitino da corso di scrittura creativa: non importa che succede riga dopo riga, ben poco valore hanno la psicologia e i tratti dei personaggi. La Munro riesce ad ottenere l'attenzione del lettore e a coinvolgerlo ma, al contempo, a creare un lieve ma persistente stato di ansia, quasi di fastidio.
Torniamo a McEwan. In questo genere è stato un maestro; non voglio dire uno dei primi ma, diamine!, rileggiamoci Primo amore, ultimi riti o Racconti fra le lenzuola o anche il romanzo breve Cortesie per gli ospiti (titolo magnifico sputtanato da quella congrega di lavativi della TV) o il capolavoro Il giardino di cemento: tra quelle pagine, di ansia, claustrofobia e angoscia ce n'era da portare via con il rimorchio, ma stiamo parlando di lui e di alcuni anni or sono. Già letto, grazie.
Sempre nel genere, è gradevole Bambinate, novella crudele e credibile, scritta bene ma conclusa in fretta. Peccato.
Non si sollevano di molto gli altri racconti: anzi, alcuni sprofondano nel parossismo o si trascinano inutili e sinceramente inconcludenti come Troppa felicità, farraginosa e dispersiva ricostruzione degli ultimi anni di vita di una matematica russa. Siamo sicuri che ce ne fosse bisogno?
L'intento di questa scrittrice era ed è probabilmente, come potete leggere nelle tante entusiastiche recensioni pubblicate in rete, quello di tracciare con maestria e abili pennellate un quadro impietoso delle nostre esistenze in tutte le loro sfumature e blablabla. Ma non funziona. Così come suona un po' patetico il tentativo di un'americana (anzi, meno: di una canadese) di sfoggiare una cultura "classica": ma l'approccio è goffo (da osteria la vulgata di Platone) e il risultato è più da Wikipedia che da liceo classico.


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Scheda del libro
Alice Munro, Troppa felicità.
2011, Einaudi Supercoralli
pp. 332
€ 20,00
ISBN 9788806200787
Traduzione di Susanna Basso

04 novembre 2012

Lo strano caso della palestra Sport Village, Torino.

Forse avrei dovuto insospettirmi maggiormente quando, alla mia richiesta del perché  l'acqua della doccia fosse fredda, un pomeriggio dello scorso luglio mi sono sentito rispondere, con candore: "E' fredda perché  abbiamo portato via le caldaie", come se tutti, prima o poi, nella propria vita, dovessero almeno una volta portare via una caldaia da un luogo dotato di spogliatoi e docce.

Ma partiamo dall'inizio, altrimenti chi legge non capisce nulla.
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La palestra Sport Village l'avevo scelta per allenarmi nel gennaio 2010, rientrato a Torino dopo 18 mesi vissuti a Venezia, per due motivi semplici: luogo (sulla strada tra ufficio e casa) e possibilità di parcheggio. Intendiamoci, c'era qualcosa di più. Era (adesso vediamo perché  uso il passato) una struttura discretamente attrezzata, molto spaziosa, recente (il che significa, in genere, meno muffa sulle pareti degli spogliatoi) e maschia. Si', maschia: una sala pesi che trasuda testosterone, pile di Muscle&Fitness vecchi di quindici anni e gente piuttosto ipertrofica: insomma, non un health club da fighetti, ma il posto giusto se hai voglia di allenarti senza perderti in chiacchiere.

Ed era un posto giusto. Tant'è  che per 3 anni ho rinnovato l'abbonamento annuale: 2010, 2011 e tutto il 2012, con scadenza, se ben ricordo, a gennaio 2013.

Ora, non voglio dire di essere un cliente fondamentale e nemmeno, con i miei 65 kg di peso, un testimonial efficace dell'immagine di Sport Village in giro per il mondo; ma un cliente si', pagante e per giunta in anticipo.
Per un paio di anni, anzi diciamo due e mezzo, le cose sono andate bene, anche se talvolta si verificavano cambiamenti. Negli attrezzi, ad esempio: apparivano e sparivano o venivano spostati, ma alla fine quelli che servivano c'erano, e quindi non ho mai fatto domande in giro. Anche negli allenatori, negli allenati e nel personale di segreteria e del bar; ma, lo ripeto, sono di poche parole e che il caffè lo facesse Tizio o Caio a me cambiava poco perché un caffè, al bar della palestra, io non l'ho mai bevuto.

Guai grossi non ne sono mai accaduti o, meglio, uno si', un fattaccio da nera, ma io non c'ero e nessuno me lo ha raccontato. L'ho letto in rete, due anni dopo, e mi e' pure dispiaciuto per lo spavento che si devono essere presi.

L'estate passata, parlo del 2012 ovviamente, nello spogliatoio e' apparso un foglio A4 con scritto CI SCUSIAMO PER I DISAGI CHE POTREBBERO VERIFICARSI NEI PROSSIMI GIORNI PER TRASFERIMENTO ATTIVITÀ , frase a dire il vero piuttosto generica, sia in termini di ambito (che tipo di disagi?) che temporali (prossimi giorni quanti?) e causali (cosa significa trasferire un'attività?), ma oltre a questo sintetico quanto collettivo appello alla pazienza degli iscritti, non sono stato coinvolto in alcun tipo di comunicazione specifica, ne' a voce ne' per iscritto. Sintetizzo: se qualcosa stava per succedere, a me non l'ha detto nessuno.

Allora ho chiesto. Che cosa sarebbe successo, l'ho chiesto ad un trainer maturo (tanto da meritarsi l'appellativo di maestro, titolo che gli riconosco) che mi ha risposto: "La palestra si sposta". Mi ha detto anche altre cose, ma qui non le scrivo perché, come dicevo poc'anzi, io sono uno di poche parole.
La palestra si sposta. Ecco qual era il recondito significato dell'espressione "trasferimento attività". Pero', di questo spostamento, a me nessuno ha informato ne' mi ha chiesto se ero d'accordo o se mi arrecasse disagio. Nada de nada. Alla faccia della customer relationship. Ma come, io ti pago in anticipo per l'erogazione di un servizio in un luogo da me scelto e tu nemmeno ti prendi la briga di controllare che sappia che alzi i tacchi e te ne vai da un'altra parte? Ti pare gentile e corretto?

Dalle chiacchiere sulle panche dello spogliatoio ho poi scoperto di non essere l'unico ad aver appreso fortuitamente di questo trasferimento ne' di averlo apprezzato ben poco. E qui veniamo alla mia seconda ed ultima doccia fredda presso lo Sport Village: stavolta in senso letterale poiché, come accennato all'inizio, le caldaie avevano preso il volo.

In capo a poche settimane di mia assenza (sia per i disagi evidenti che per le ferie), della palestra rimanevano l'insegna e un portone sbarrato. A conti fatti, avevo perso 5 mesi di iscrizione pagata. Telefoni staccati. Nessuno a cui chiedere spiegazioni. Pure la pagina Facebook, su cui ricordo di aver cliccato Mi piace, era sparita dal social network.

Ma un pomeriggio di agosto ho incontrato, proprio nei pressi del fu Sport Village, la titolare o, per lo meno, colei che credo gestisse la società (come detto, non vado in giro a chiedere visure camerali); due chiacchiere al volo, per manifestare garbatamente il mio disappunto e sconcerto, ricevere una imbarazzata giustificazione ("Ma come? Le ragazze non ti hanno detto nulla?" -- ma quali ragazze, mi chiedo io) e una formale rassicurazione: "lo Sport Village si sta trasferendo in un altro locale, presso il Palazzo della Moda, e sara' riaperto non prima di fine settembre, ma stai tranquillo, ti contatteremo per email o per telefono e potrai recuperare i mesi di abbonamento".

Il Palazzo della Moda e' un condominio adiacente al Novotel di Corso Giulio Cesare, quindi non lontano dalla precedente sede e, per me, non disagevole ne' scomodo dal punto di vista logistico. Una buona notizia, no?

No. Perché  da quel giorno sono passato due volte nella ipotetica nuova sede, e in giro non c'era l'ombra di un manubrio o di un asciugamano sudato. Ma c'erano baristi e portieri. Se volete informazioni, i baristi e i portieri sono le risorse più  preziose a cui potete rivolgervi: primo, stanno li' tutto il giorno con gli occhi aperti; secondo, ascoltano un sacco di discorsi, quindi state tranquilli che se c'e' una novità  nell'aria, loro sono i primi ad annusarla.

Ai primi di ottobre, la mia prima visita; il bar sta chiudendo, e una ragazza graziosa a cui chiedo se sa nulla di una palestra, mi risponde sorridendo divertita, come a dire: campa cavallo.

Non metto briglie al mio ottimismo e torno a fine ottobre. Questa volta chiedo in portineria, ma l'antifona non cambia: stesso sorriso, nessuna palestra. Anche altre informazioni, che qui non scrivo perché,  come noto, sono di poche parole. Una cosa pero' la posso condividere: pare che la palestra risorgerà si', ma in un'altra zona ancora, nota come Cebrosa. Ottimo, sulla strada per casa; una buona notizia, allora?

No. Perché al succitato complesso produttivo di palestra hanno sentito parlare ma nel senso che non si farà, fine della faccenda. E anche qui, nella risposta, un malcelato sorriso sardonico.

Fine, quindi. Cosi' pare. E già. Un'attività chiude senza avvisare i clienti (soci) paganti, e buonanotte.
In questa faccenda, io ho una colpa, che e' quella di essere di poche parole: difatti in oltre due anni di frequentazione non ho scambiato molte chiacchiere, ne' tanto meno email e numeri di telefono, con gli altri soci iscritti, per cui non ho potuto ne' posso contattare nessuno per avere aggiornamenti.

Cosa rimane alla fine di questa storia? Facciamo una breve lista:
1. una perdita economica per i mesi di servizio non fruito, non una fortuna, ma occhio e croce stimabili sui 120-130 euro
2. la percezione di essere stato considerato molto poco, come cliente e come persona
3. una forte disistima nei confronti del personale operativo e amministrativo
4. last but not least, LA domanda: perché  tutti coloro a cui ho chiesto dello Sport Village mi hanno risposto con un sorrisetto?

Ecco, questa e' proprio la fine della storia. Adesso devo cercare un altro posto in cui allenare i miei striminziti 65 kg e in cui portare un po' di soldi. Sperando di essere trattato un po' meglio , come cliente e come persona. Sperando che, all'improvviso, non spariscano ne' le caldaie ne' le persone.