27 settembre 2006

[Le città sull'acqua] Una notte a Venezia.

Il refettorio del convento di San Salvador, sede del Future Centre.

Dopo le recenti puntate ad Amsterdam, continuo il mio fortunatissimo peregrinare per le città sull'acqua con il primo dei tre appuntamenti a Venezia, presso il Future Centre di Telecom Italia. E a Venezia il 24 ottobre avrò l'onore di raccontare due o tre cose che so sui blog nel corso di una delle lezioni dell' Accademia dell'Innovazione.
Avevo promesso di mettere on line il mio contributo mentre lo scrivevo, ma alla fine ho preferito tenerlo su un buon vecchio documento di Word. Può darsi che metterò on line il pdf da scaricare.
Fine dell'annuncio pubblicitario. Torniamo al post.

Lettura: Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.
Ascolto: Franco Battiato, Prospettiva Nevsky


La mia conoscenza di Venezia risale alle mie prime letture infantili; si tratta di Favole al telefono e Novelle fatte a macchina di Gianni Rodari (entrambi editi negli anni '70 per gli Struzzi di Einaudi), due gustose raccolte di fiabe e racconti brevi (Rodari usa il più corretto termine di novelle) che mia madre mi comprò nei primi anni '80, e che ho letto e riletto ininterrottamente per mesi e, a più riprese, negli anni successivi. A Rodari si deve l'invenzione di personaggi fantastici e innocui, ma profondamente simbolici e rappresentativi di un'Italia ancora semplice e buona, come il pane. Uno di questi era, se ben ricordo, il veneziano doc sior Todaro, e la sua vita si divideva tra calli e canali.
Undicenne andai a Venezia, un febbraio freddo e piovoso. Vent'anni fa.
Fu verso i 25, invece, che scoprii questa città nella novella Morte a Venezia di Thomas Mann: una città malincolica come sfondo ad una storia sofferta, una storia erò lontana a quella che potrei vivere. Per questo tutt'oggi mi ritrovo pù nelle pagine di Rodari, consumate dalle tante letture, che nei pensieri dolorosi di Mann.
Ma io sto di nuovo divagando.

Venendo da Ponte di Rialto e poi giù per Calle degli Specchieri, stretta, buia e confortevole, Piazza San Marco si apre agli occhio come un quadro di Canaletto. Se l'urbanistica perfetta delizia la vista, i numerosi quartetti d'archi sui palchi allestiti di fronte ai caffè, deliziano l'udito con il loro repertorio classico. Il vento leggero, in una serata fresca ma ancora lontana dal vero autunno, porta un sentore salmastro e di legno fradicio, dice che la laguna è vicina, proprio oltre il colonnato di San Marco.

Di ritorno, compiuto il perimetro della piazza, e con gli occhi estasiati di fronte alla bellezza antica e austera del Caffè Florian, rientro nelle calli, attraverso ponti, passo sotto bassissimi sottoporteghi con le travi di legno a vista che sembrano cadermi addosso. Ma tutto regge.
Tutto è in equilibrio, un equilibrio impossibile: perché questa città cammina sull'acqua da secoli eppure non ne è corrotta, non vi affoga: vi resta.

I negozi sono pieni di maschere e di vetro, come si addice a Venezia. Riflettevo, solo tra le strade strette, che la coesistenza di questi due prodotti tanto diversi per consistenza materica e funzione, è una delle contraddizioni di Venezia, come l'essere essa stessa terra e mare. Perché la maschera nasce per coprire, nascondere, creare mistero; mentre il vetro è trasparente, e non sottrae allo sguardo quello che vi è dietro o quello che in esso è contenuto.

Peccato solo avere avuto così poco tempo. Fra due settimane, piacendo a Dio e agli uomini, sarò nuovamente là, a lavorare il giorno e bighellonare la sera. Chissà che pensieri porterò a casa.

Annuncio finale. Poi basta pubblicità.
Il prossimo post sulle citta sull'acqua sarà probabilmente a novembre, dopo la mia visita a Barcellona (21-23 novembre), dove andrò ospite di una società di ricerca per fare una presentazione sulla distribuzione dei contenuti digitali multimediali.

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